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Friuli 1976-1977: la gestione dell’emergenza in relazione ai terremoti di maggio e di settembre (di Giuseppe Zamberletti)

13/02/2019Renato Fuchs

Di recente è scomparso Giuseppe Zamberletti, considerato con buona ragione il padre della Protezione Civile in Italia. Vogliamo ricordarlo qui pubblicando un estratto da un suo articolo, pubblicato in inglese su un numero speciale del Bollettino di Geofisica Teorica e Applicata (Pdf).

È interessante leggere questo bilancio dell’intervento dello Stato relativo ai terremoti del 1976 in Friuli, scritto dal principale protagonista. In particolare, colpisce la descrizione della situazione alla data finale dell’intervento diretto dello Stato, meno di un anno dopo il primo terremoto: il confronto con gli eventi recenti è impietoso.

Credo che la vicenda emergenziale del terremoto friulano, soprattutto in funzione di quanto ha saputo determinare e condizionare della successiva evoluzione del sistema nazionale di protezione civile così come oggi lo conosciamo, vada divisa in periodi temporali ben precisi, in cui la gestione degli interventi e il coordinamento dei soccorsi e dell’assistenza sono stati scanditi e per molti versi indirizzati dalla sequenza delle due scosse del maggio e del settembre.

(…)

La primissima fase fu più dura e caotica di quello che si tende a ricordare. Pur avendo nelle Prefetture e in particolare in quella di Udine un naturale punto di riferimento, la carenza o l’imprecisione delle informazioni sulla reale dimensione dell’evento e la sua estensione territoriale, fu alla base delle difficoltà e della confusione della prima ora.

Grazie alla presenza in zona (per tutt’altre ragioni) di consistenti contingenti delle Forze Armate, non si ebbe tanto un problema di rapido afflusso di strutture operative, quanto di incertezza iniziale sulle direzioni da far prendere alle colonne di aiuti che arrivavano e sui criteri da assumere per la loro distribuzione. E ciò a causa soprattutto della rete di comunicazione assolutamente inadeguata a sopportare l’impatto del terremoto e della mancanza – all’epoca – di soggetti preposti istituzionalmente alle valutazioni e alle segnalazioni. A ciò supplirono nobilmente e talora eroicamente i radioamatori e i CB, pagando qualche prezzo tuttavia in termini di precisione e di coordinamento nell’indirizzare i soccorsi. Fino all’arrivo dei vigili del fuoco mancarono drammaticamente anche dei tecnici che dirigessero localmente le prime operazioni spontanee di soccorso.

A contribuire alle difficoltà iniziali fu persino la stessa nomina del Commissario, avvenuta soltanto 22 ore dopo la scossa, a causa delle incertezze della norma dell’epoca che non disciplinava procedure chiare per il riconoscimento della “calamità naturale” e la nomina del Commissario, soprattutto in un quadro informativo così confuso.

Da ultimo, ma forse con ruolo decisivo, vi fu la mancanza di una pianificazione preventiva della risposta da dare ad eventi di estensione almeno regionale.

(…)

La situazione era tragica, e per di più non si aveva memoria recente di un disastro di simili proporzioni. (…) Avevamo avuto 976 morti e circa 2.000 feriti. I senzatetto erano poco meno di 60.000 su una popolazione di 370.000 abitanti.

(…)

La sera del 10 maggio, decisi allora di istituire 9 Centri Operativi di Settore, i C.O.S. (antesignani degli odierni C.O.M.) come luoghi accessibili in cui organizzare e coordinare efficacemente gli interventi.

Alle attività dei C.O.S., imperniati per il coordinamento e per le funzioni tecniche su funzionari della Prefettura e sui Vigili del Fuoco, partecipavano stabilmente Sindaci, rappresentanti della regione, ufficiali delle Forze armate e di tutte le forze operanti in zona. Per distribuirli in modo razionale sull’intero territorio colpito, insediai un C.O.S. a Cividale, Gemona, Maiano, Osoppo, Resiutta, S.Daniele, Tarcento, Tolmezzo e Spilimbergo (poi trasferito a Pordenone).

(…)

I ricoveri di senzatetto furono tantissimi. Le tende, montate in prevalenza dall’Esercito in circa 20 giorni, furono circa 18.000 e dettero sistemazione a quasi 80.000 persone, aggiungendosi ben presto alle sistemazioni di emergenza dei primissimi giorni (autovetture, vetture cuccette delle FF.SS., prime roulottes ecc.) e furono raggruppate in 252 tendopoli (poi ridotte a 184), nonché in un migliaio di nuclei minori sparsi “a pioggia” sul territorio, consentiti nonostante le difficoltà di gestione (vettovagliamento, acqua potabile, servizi igienici) per venire incontro alla tendenza dei colpiti a permanere nelle vicinanze del proprio luogo di abitazione.

La scelta dell’attendamento prevalse sull’esodo immediato, oltre che per la chiara volontà popolare di restare in zona, anche per l’assenza di dati reali sulla ricettività delle zone costiere (che invece saranno determinanti dopo la seconda scossa del settembre) e anche per non incentivare la tendenza allo spopolamento e all’emigrazione all’estero, già poderosa in quelle zone nel periodo.

Verso la fine di luglio la situazione appariva stabilizzata e sotto controllo, con la macchina del soccorso e dell’assistenza rodata e collegata ai Centri Operativi di Settore ed ai centri operativi delle diverse forze. Per dare un’idea dello sforzo prodotto, basta considerare i numeri delle Forze Armate. In quel periodo avevamo avuto un impegno giornaliero medio di 13.000 uomini dell’esercito con 1500 mezzi, 350 mezzi speciali, 60 ambulanze, 12 fotoelettriche, 430 autobotti, 216 cucine campali e 45 bagni campali.

La sanità era sotto controllo, con la popolazione vaccinata in massa e sottoposta a controlli periodici. Per quanto riguarda i servizi, erano state ripristinate seppure in via provvisoria la viabilità stradale, le comunicazioni telefoniche, telegrafiche e postali, la distribuzione di acqua potabile e di energia elettrica.

A chi ne aveva fatto richiesta era stata assicurata una tenda e il necessario vettovagliamento. Le tendopoli erano state attrezzate con servizi igienici, luce elettrica e rifornimento idrico. Gli edifici pericolanti erano stati abbattuti, e le vie dei centri storici quasi totalmente sgomberate. Verso la fine di giugno, i pompieri avevano cominciato a ridurre la loro presenza. Si cominciava a registrare una certa ripresa dell’attività economica ed industriale, dovuta soprattutto ai finanziamenti regionali: molti stabilimenti avevano ripreso la loro attività. La regione aveva gestito fondi propri e fondi statali in modo oculato e tempestivo, intervenendo soprattutto nei settori della ripresa economica e produttiva, ma anche nell’edilizia pubblica e quella scolastica, nella promozione del settore agricolo e zootecnico e persino nella valorizzazione turistica del Friuli per una rapida risalita in tutti i campi. Gli enti locali giravano ormai a regime con il supporto dei C.O.S.

Si era verso il termine della prima fase, e vista la legge in vigore all’epoca (la 996/70) che disponeva la presenza di un Commissario –peraltro con poteri limitati – solo per la primissima emergenza, con il mio imminente ritorno a Roma ci si pose seriamente il problema operativo di come far passare alla popolazione il periodo transitorio verso una fase di più normale sistemazione, pur ancora transitoria ma accettabile, che avrebbe compreso l’autunno e l’inverno successivi.

(…)

A quel punto. essendo sostanzialmente esauriti i compiti emergenziali affidatimi dalla legge, con il 25 luglio lasciavo l’incarico.

(…)

Due nuove scosse (…) colpirono il Friuli l’11 e il 12 settembre, e la popolazione si sentì una volta ancora in ginocchio. L’emigrazione fuori regione, ma soprattutto le richieste di passaporto per l’espatrio, continuavano ad aumentare. Da più parti si levò la richiesta di un nuovo intervento massivo dello Stato, e una Commissione parlamentare inviata nei luoghi sentenziò in modo decisivo la necessità di procedere a un nuovo commissariamento. Il 13 settembre fui di nuovo nominato, ma stavolta con poteri molto più ampi e di carattere eccezionale, e non di semplice coordinamento, poiché si trattava di saldare ormai la fase di soccorso con quella più complessa della ricostruzione. Appena nominato, il 15 settembre, mentre mi trovavo in Prefettura a Udine, arrivò la terribile seconda scossa che tutti ricordano come analoga a quella del maggio. I morti furono una decina, ma gli effetti sull’area furono esiziali, perché cadde quasi tutto quello che non era caduto a maggio, e caddero anche le case riparate durante l’estate: il fabbisogno di ricoveri raddoppiava, e non era più tempo per la tenda.

In quei giorni, mettendo a frutto le informazioni dei primi mesi, avevo preso alcune decisioni: il piano di alloggi provvisori andava potenziato; la popolazione, ad ogni costo, avrebbe dovuto essere arretrata provvisoriamente sulla costa veneta, sia per trovare un sicuro e stabile riparo provvisorio per l’inverno, sia per non intralciare la realizzazione dei fabbricati. L’ipotesi di esodare, più volte ventilata durante l’estate, ma anche altrettanto osteggiata dalla popolazione, dopo il 15 settembre era divenuta inevitabile, e a quel punto la decisione di andare sulla costa andava solo concretizzata. Dopo aver ripreso le attività coi vice commissari e riattivato i C.O.S. nella composizione consueta, affiancai al piano della regione un secondo piano del commissario da 10.500 alloggi, e detti il via all’arretramento di almeno 40.000 persone sulla costa, che avrei fatto rientrare via via che si completavano gli alloggi provvisori, mentre si sarebbe trattato di trovare migliaia di roulottes per garantire la permanenza in zona per l’inverno a chi doveva restare per motivi di lavoro.

L’esodo della popolazione fu organizzato secondo un modello che non aveva precedente alcuno, ma che in compenso è stato replicato con successo nella sua quasi totalità in occasione del terremoto dell’Abruzzo del 2009.

(…)

I rientri furono programmati in concomitanza con la progressiva consegna dei prefabbricati pronti, a partire da quelli del primo piano regionale, seguiti poi dalla seconda ondata di quelli realizzati direttamente dal commissario. Le persone fecero rientro progressivamente tutte entro il 30 aprile 1977, con un lieve ritardo, quindi, rispetto alla tabella di marcia commissariale, che prevedeva la fine dell’esodo per il 31 marzo. A quella data, con il ritorno a più normali condizioni di vita, si poté ritenere chiusa davvero l’emergenza. La data di completamento dell’operazione di “reinsediamento” della popolazione nei comuni terremotati era stata fissata anche in considerazione della necessità di garantire all’industria turistica della costa la certezza di non perdere l’attività della stagione estiva, evitando un danno che poteva influenzare i flussi dei turisti, orientandoli verso altre destinazioni. Il Parlamento aveva prudentemente fissato il termine della gestione straordinaria commissariale per il 30 aprile. Quel giorno segnò l’avvio del percorso della ricostruzione e registrò un commosso “arrivederci” tra i friulani e i tanti che avevano con loro condiviso una stagione angosciosa ma anche ricca di impegno e di fiducia nella rinascita.

: Gestione emergenze, Giuseppe Zamberletti, Terremoto Friuli 1976

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